
La finestra di Overton è stata spalancata anche per la questione dell’“utero in affitto” o, per i più “politically correct”, delle “madri surrogate” o della “gestazione per altri”.
Il meccanismo è semplice. Si introduce nella bolla mediatica un tema fino ad oggi ritenuto inaccettabile per la maggioranza delle persone, e lo si fa tra il serio e il faceto; non importa se le reazioni iniziali sono di ironia o disgusto; ciò che importa è gettare l’amo.
Da quel momento in poi lo stesso tema tornerà a fare capolino di tanto in tanto, diventando sempre più “normale” per le persone, che si abitueranno a sentirne parlare e a parlarne.
Il dibattito su quel tema poi diverrà sempre più frequente e avverrà a livelli sempre più “seri” e istituzionali, occupando spazi anche nei mass-media di eco nazionale, magari sponsorizzato anche dagli esperti di turno che lo giustificheranno su base scientifica. A quel punto il gioco è fatto. Le persone si saranno abituate e accetteranno come ragionevoli e condivisibili idee che fino a poco tempo avrebbero ritenuto impensabili ed inaccettabili. Miracoli della fede? Assolutamente no. Una dinamica ben conosciuta in psicologia, che consiste nell’arrivare a far accettare qualcosa somministrandola a piccole dosi, quasi omeopatiche. A quel punto, annullato il pensiero critico individuale, si crea una massa di persone – la maggioranza – che sarà disposta addirittura a lottare per promuovere quell’idea prima ritenuta inaccettabile e oggi considerata emblema di progresso e di evoluzione; fino ad arrivare a stigmatizzare, discriminare ed emarginare coloro che non si saranno lasciati plasmare dal pensiero dilagante divenuto, nel frattempo, dominante.
Creare gusti e tendenze, portare le persone a pensare quello che si vuole che pensino diventa così un’operazione scientifica, di sicura riuscita e, quel che conta di più, indolore e inodore per la stragrande maggioranza della popolazione che crederà di aver maturato certe idee e convinzioni in piena libertà e autonomia di pensiero.
Fin qui abbiamo descritto il processo di costruzione sociale della realtà.
Ma scendiamo nella questione dei contenuti.
Parlando di utero in affitto non mi interessa soffermarmi sulle questioni sociologiche, etico-morali o religiose: lo sfruttamento di chi, povero, cede alle lusinghe del denaro da parte di chi è ricco, il tema della mercificazione della vita umana e il processo di transumanesimo in atto ormai da diversi anni; tutti aspetti già abbondantemente sviscerati in alcuni recenti articoli, compreso il recente post di Simone Cristicchi.
Qui mi interessa semmai che ognuno provi ad immedesimarsi, per quanto possibile, nei panni di una donna che affitta il proprio utero (il proprio utero, non la sua casa o la sua macchina!) per far crescere dentro di sé un bambino che dopo nove mesi sarà affidato alle cure di un’altra donna, dopo aver ricevuto un compenso per il disturbo. Nessun atto d’amore che alimenta questa nuova vita, il semplice risultato di un calcolo scientifico e di una transazione economica. E che dire delle ansie, le paure, gli stravolgimenti fisici e neuro-ormonali tipici della gravidanza, il sentire dentro di sé un essere che sta crescendo senza averlo desiderato, con la naturale disposizione a sentirlo proprio, sapendo però che è di qualcun altro. Come vivrà il presente questa donna, quali sensazioni proverà, che rapporto avrà con se stessa e con la sua coscienza quando un giorno si guarderà allo specchio?
Ma mettiamoci anche nei panni di una donna (o, in questo caso anche di un uomo) che, non essendo stata dotata dalla natura della capacità di procreare, decide di farlo prendendo in affitto l’utero di un’altra, dandole dei soldi per far nascere un bambino che sarà suo figlio; il quale, per inciso, potrà sì avere i suoi geni – come nella gravidanza cosiddetta “tradizionale” – ma potrà anche non averli – come nella gravidanza detta “gestazionale”. Ebbene, come si sentirà questa donna, soprattutto sapendo che le emozioni, gli stati d’animo, i pensieri e tutto quello che la madre naturale di suo figlio vive durante la gravidanza andrà ad imprimersi nell’assetto psichico del suo futuro bambino? Oggi che l’epigenetica sembra prevalere sulla genetica sappiamo che la vita fetale è una realtà e che le prime esperienze fatte nella pancia della mamma segnano la psiche del bambino condizionandone lo sviluppo affettivo futuro.
E sappiamo anche che biologicamente, assieme al nutrimento che dà al bambino, la madre trasmette, attraverso le sue cellule, una traccia di tutte le esperienze da lei vissute, compresi i traumi del passato, gli atteggiamenti, i condizionamenti e le paure. Fantascienza? No, neuroscienza, secondo la quale ogni cosa che accade nella mente si trasmette elettrobiochimicamente ad ogni cellula del nostro corpo, sotto forma di input da seguire, di un segnale che rimane archiviato nella memoria della cellula stessa anche dopo che la traccia biochimica si è esaurita.
Detto questo, non mi resta che lasciare ad ognuno di voi eventuali conclusioni o risposte alle domande di cui sopra, con il consiglio di lasciarvi guidare, in questa ricerca, dalla vostra voce interiore, dal vostro cuore, unico assente di rilievo in tutta questa faccenda. Fatelo e troverete la vostra risposta, lasciando fuori dalla porta il frastuono delle opinioni e delle “verità” dei tanti e dei molti.
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