
Anch’io ho lavorato come musicista (e occasionalmente lo faccio anche adesso), prima di fare lo psicologo. Per questo conosco l’emozione che si prova prima di un concerto, il profumo dei tendoni di tessuto pesante del teatro che ovattano i suoni e le voci rendendoli nudi ad ogni più piccola imperfezione, lo scricchiolio del legno del palco, e il calore delle luci che ti secca la bocca e ti riscalda il viso. Per non parlare del fragore degli applausi che ti avvolge, che ti dà il senso di quanto sei riuscito a comunicare col pubblico, creando una connessione e un senso di reciprocità che è la vera ricchezza, ricevuta da chi si è esibito e donata da chi ha assistito allo spettacolo.
E conosco anche le sensazioni che si provano a stare tra il pubblico; lo spegnersi delle luci in sala che sancisce l’inizio dello spettacolo, la trepidazione per chi sta sul palco e la pelle d’oca che ti viene quando sei investito dall’ondata sonora che ti sommerge con la sua forza o ti solletica nei sentimenti più delicati. Puoi davvero sentire la vibrazione della musica che ti arriva addosso e ti entra dentro e, in quel momento, ti senti parte di qualcosa di più grande, di un’armonia collettiva che si è creata magicamente quasi dal nulla, dalle persone per le persone. Chiunque abbia almeno una volta partecipato a un concerto in un teatro sa di cosa parlo e sa anche quanto si esce arricchiti e rinfrancati nello spirito da questo tipo d’esperienza.
Fin qui il passato. Poi, il giorno di Capodanno ho ascoltato il concerto inaugurale trasmesso dalla Fenice di Venezia e più che quello che ho sentito, mi ha colpito quello che ho visto. I musicisti, oltre ad essere “a distanza di sicurezza” tra loro avevano i cosiddetti dispositivi di protezione; la mascherina per il direttore e per tutti coloro che suonavano strumenti ad arco e a percussione e barriere isolanti in plexiglas tra gli orchestrali con strumenti a fiato. Naturalmente il pubblico non era presente. Ma ancor più sconcertante dal mio punto di vista era il fatto che i componenti del coro, che usano la voce come strumento, oltre ad essere distanziati, indossavano anche loro la mascherina, creando un effetto surreale per cui si sentiva cantare ma non si capiva da dove provenissero le voci.
In quel momento la musica è passata in secondo piano e, improvvisamente, sono stato colto da un profondo senso di tristezza e di sconforto per come ci siamo ridotti. Certo bastava guardarsi attorno e quello che vediamo tutti i giorni non è poi così diverso da quello che ho visto in televisione. È stata eliminata ogni forma di contatto e di comunicazione vera tra le persone, nelle scuole, nelle piazze, negli ospedali, nei contesti di lavoro e anche, in molti casi, all’interno delle famiglie. Ma averlo visto in un teatro, il luogo del bello, dell’armonia per definizione, dove la musica nasce per il pubblico e lo contagia, avvolgendolo e rendendolo parte di una creazione comune (non a caso la parola concerto rimanda ad un accordo comune, ad un cooperare, ad un fare assieme), mi ha impressionato ancora di più. Fare musica in un teatro senza la presenza di chi ascolta è come dipingere un quadro per tenerlo chiuso in soffitta; e stare separati e imbavagliati mentre i suoni e le voci dovrebbero fondersi tra loro è come voler fare l’amore con qualcuno stando in stanze separate. La musica dovrebbe unire, non dividere.
Il messaggio che mi è arrivato è quello della separazione, della lontananza dall’altro, quand’anche del timore dell’altro. In quel momento ho capito che stiamo andando verso un mondo senz’anima, un mondo disumano, senza contatto e senza reale comunicazione tra le persone e, in fondo, un mondo senza vita.
La mia riflessione, a posteriori è stata lapidaria: se non cambiamo moriremo tutti, intendendo una morte dell’anima, una morte psicologica, poiché essere vivi non significa solo avere un corpo e nutrirlo con del cibo. Significa sentire la vita che scorre, percepirne il flusso, l’energia, sentire che quando incontro una persona e la abbraccio mi arriva il suo calore e la ricambio con il mio, che quando sento un’orchestra percepisco un’unica vibrazione che mi riempie, mi attraversa e mi collega con tutti quelli che ho intorno, facendomi percepire di esser parte di qualcosa che va oltre i limiti del corpo fisico.
Invece ci stiamo trasformando in degli zombi ambulanti, in dei paranoici che vedono pericoli ovunque tranne che dove dovrebbero davvero vederli, e per questo ridotti ad un contatto virtuale con dei display dai quali non può certo arrivarci la pienezza dell’emozione della persona che abbiamo di fronte. E se non ci arriva l’emozione dell’altro non possiamo nemmeno entrare in comunicazione con lui poiché non potrà percepire quello che io vorrei restituirgli. Del resto, la psicologia ci insegna quanto sono importanti i nostri “sensori” emotivi, sia ai fini della sopravvivenza che dell’evoluzione.
A proposito di questo, mi fa riflettere che anche in un settore come quello della psicoterapia molti dei miei colleghi, nonostante nell’ambito delle sedute la distanza di sicurezza sia naturalmente garantita, chiedano ai loro potenziali pazienti di indossare la mascherina, rassicurandoli sul fatto che la indosseranno anche loro. Certo, rispettano le raccomandazioni; ma si chiedono anche qual è il senso di quello che stanno facendo visto che il loro mandato primario è promuovere l’autenticità, il benessere, l’autonomia di scelta e la libertà psicologica del paziente? Come se ci rivolgessimo ad un dietologo che ci raccomanda di mangiare un’intera scatola di cioccolatini al giorno!
“La verità attraversa sempre tre fasi. Dapprima viene ridicolizzata. Poi violentemente contrastata. Infine accettata come una cosa ovvia”
Schopenhauer
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Senza contare che è proprio attraverso la comunicazione non verbale delle emozioni che ogni essere umano sviluppa le sue competenze affettive, attraverso quel processo empatico di rispecchiamento che coinvolge i “neuroni specchio” (link approfondimento wikipedia). Un bambino, tanto per intendersi, impara a comprendere se stesso e il proprio mondo emotivo attraverso il contatto visivo con gli altri bambini e con le figure di riferimento. Privare una generazione di bambini e di giovani di questa possibilità significa creare degli analfabeti emotivi, con tutte le conseguenze che ne deriveranno.
Tuttavia, poco importa, visto che per come stanno andando le cose, si sta boicottando anche il principale fattore terapeutico alla base di ogni tipo di cura psicologica, ovvero la relazione che il terapeuta riesce a costruire col paziente, fatta di comprensione, di vicinanza emotiva e di contatto diretto (senza mascherina, ovviamente) con la sua sofferenza.
Tolto questo, per “guarire” dai nostri disagi esistenziali, non ci resterà che farci prescrivere le terapie farmacologiche più adatte al nostro caso di anonimo paziente, da parte di un qualche anonimo terapeuta che non abbiamo nemmeno mai visto bene in faccia (per inciso, gli studi oggi ci dicono che l’efficacia di uno psicofarmaco senza l’effetto trainante di una relazione terapeutica facilitante è pressoché nullo, riflessione che approfondirò in un post futuro). Se poi davvero “guariremo” non lo sappiamo; ma almeno non ci contageremo!
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