
I farmaci: dai laboratori ai banconi delle farmacie
Prima che un farmaco venga messo in commercio, è sottoposto ad una rigorosa sperimentazione. Le case farmaceutiche sponsorizzano istituti di ricerca e Università per effettuare costosi studi in cui alcuni pazienti sono trattati col farmaco e altri col placebo. Il farmaco è considerato efficace solo se i pazienti a cui è stata somministrata la vera medicina migliorano in modo significativamente maggiore di coloro a cui è stato somministrato il placebo.
I risultati di questi studi sono poi inviati alle riviste mediche del settore e, prima di essere pubblicati, sono valutati dai loro revisori scientifici. Gli stessi studi sono inviati anche alle agenzie che regolano la commercializzazione dei farmaci, che valutano, oltre all’efficacia desunta dagli studi, anche il livello di sicurezza del nuovo farmaco. Negli Stati Uniti questa agenzia è l’FDA (Food and Drug Administration) così come l’EMA è l’Agenzia che approva i farmaci per l’Unione Europea, l’AIFA lo è per l’Italia e l’MHRA (Medicine and Healthcare Product Regulatory Agency) per il Regno Unito.
Quando Kirsch nel 1998 pubblicò la sua meta-analisi1 che smentiva la fino ad allora presunta efficacia degli antidepressivi suscitò un grande clamore e scetticismo e si attirò anche molte critiche, almeno da parte dei sostenitori più accaniti della psicofarmacologia. Al punto che lo stesso Kirsch si persuase che doveva esserci davvero qualcosa di sbagliato nel suo studio, o perlomeno potevano esserci altri dati che non aveva considerato o che gli erano sfuggiti. Per questo motivo, e su consiglio di un collega, cercò allora di ottenere i dati in base ai quali la FDA aveva approvato i farmaci antidepressivi; l’FDA, così come le altre agenzie internazionali, prima di approvare un farmaco, chiede infatti alle case farmaceutiche di inviargli tutti gli studi clinici effettuati, sia quelli pubblicati che quelli non pubblicati. Questo avrebbe permesso di fugare ogni dubbio – e ogni polemica – sulla bontà delle conclusioni a cui era arrivato Kirsch con il suo studio precedente.
Tuttavia, ottenere questi dati dalla FDA non fu semplice tanto che Kirsch dovette appellarsi al Freedom of Information Act, una legge americana che tutela il diritto di accesso alle informazioni da parte dei cittadini. Analizzando i dati ottenuti dall’FDA si rese conto che il suo studio precedente aveva addirittura sopravvalutato l’efficacia degli psicofarmaci, e nel 2002 pubblicò questi risultati2, che poi furono confermati anche da un gruppo di psicofarmacologi indipendenti invitati a discutere criticamente la sua ricerca. Se questo non bastasse, i risultati di Kirsch furono confermati anche da studi successivi, pubblicati su alcune delle riviste scientifiche più prestigiose del mondo3 .
Analizzando i dati ottenuti dalla FDA Kirsch si accorse anche che più della metà (il 57%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche avevano dimostrato la sostanziale inefficacia degli antidepressivi e che gran parte di questi studi non furono mai pubblicati: in sostanza, c’era una tendenza diffusa, da parte delle case farmaceutiche, a far pubblicare gli studi riusciti e a non far pubblicare o respingere quelli non riusciti.
Kirsch si accorse che un altro escamotage utilizzato dalle case farmaceutiche per far sembrare i loro prodotti migliori di quanto fossero in realtà era quello di far pubblicare più volte gli studi che avevano avuto dei risultati positivi. Oppure, venivano alterati alcuni dati dello studio, indicando ad esempio un minor numero di soggetti rispetto a quelli effettivamente coinvolti, col risultato di amplificare i risultati positivi, che si trovavano ad essere “spalmati” su un minor numero di persone.
Queste strategie erano alla base di quello che alcuni autori definirono il “piccolo sporco segreto” tra le case farmaceutiche, gli istituti di ricerca e l’FDA, dai risvolti tutt’altro che irrilevanti visto che oltre a promuovere la commercializzazione di un farmaco sulla base di dati a dir poco parziali, condizionavano pesantemente l’opinione pubblica, la letteratura scientifica e, di conseguenza, l’atteggiamento prescrittivo dei medici.
Il caso della GlaxoSmithKline
Negli anni ’90 la GlaxoSmithKline finanziò 3 studi sull’efficacia della paroxetina, un antidepressivo per bambini e adolescenti venduto nel Regno Unito col nome commerciale di Seroxat.
Uno degli studi riportò risultati misti, uno non evidenziò differenze significative tra farmaco e placebo e il terzo indicò che il placebo poteva essere più efficace del farmaco nei bambini di età compresa tra sette e undici anni. Ebbene, solo quello che aveva mostrato risultati misti fu pubblicato mentre gli altri due rimasero nascosti; la conclusione fu che “la paroxetina è efficace nel trattamento della depressione maggiore negli adolescenti”.
Nessuno avrebbe mai saputo niente degli altri due studi se un documento riservato della Glaxo non fosse caduto nella mani del Canadian Medical Association Journal. In questo documento si affermava che sarebbe stato inaccettabile pubblicare i dati reali emersi dagli studi poiché “ciò inficerebbe il profilo commerciale della paroxetina”.4
Ci vollero 14 anni – nel corso dei quali la paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto – prima che fosse fatta giustizia sui dati reali emersi dagli studi e, nel 2004, il procuratore generale di New York intentò una causa per frode contro la GlaxoSmithKline accusandola di aver nascosto ai medici informazioni rilevanti riguardo il Paxil (nome commerciale della paroxetina negli USA)5. La causa si risolse con un patteggiamento; la Glaxo accettò di pagare due milioni e mezzo di dollari allo Stato di New York e di mettere in rete tutti i dati di tutti gli studi clinici che aveva finanziato. Alla causa non ne seguirono altre, come invece si sarebbe sperato. Tuttavia, questo scandalo servì a far emergere che la maggior parte degli studi clinici con risultati negativi non veniva pubblicata e i dati restavano inaccessibili ai ricercatori, ai medici e al pubblico in generale. Un fatto ben conosciuto anche da noi, visto che è lo stesso Garattini6 ad affermare che i lavori che riportano effetti positivi di un farmaco hanno tre volte più probabilità di essere pubblicati rispetto a quelli che riportano effetti negativi o nulli, e questo di per sé produce un importante effetto di distorsione.
Le riviste scientifiche: il quarto anello della catena
Gli studi clinici non sono pubblicati direttamente dalle case farmaceutiche; sono le Università ad inviarli alle riviste scientifiche del settore le quali, dopo attenta revisione da parte di esperti che ne valutano la correttezza e il rigore metodologico, decidono o meno di pubblicarli.
Inutile dire che il motivo della mancata pubblicazione degli studi analizzati da Kirsch non era dovuto a errori metodologici ma ad un occultamento degli studi stessi da parte delle case farmaceutiche o ad un atteggiamento di compiacenza da parte delle riviste scientifiche. Sappiamo, infatti, che le riviste sono quasi sempre finanziate dalle case farmaceutiche e le case farmaceutiche chiedono alle Università, in virtù dei contratti di sponsorizzazione stipulati con queste ultime, di non inviare alle riviste scientifiche gli studi (o gran parte di essi) che smentiscono l’efficacia dei loro farmaci.
Paolo Migone, psichiatra ed accademico italiano con alle spalle un’esperienza professionale oltreoceano che, tra le altre cose, lo ha portato ad essere membro editoriale di varie riviste internazionali, dice che “praticamente non esiste al mondo una rivista di psichiatria che non sia finanziata dalle case farmaceutiche, direttamente o tramite la pubblicità, perché i costi sono molto alti, e il direttore di una rivista può non sentirsi a suo agio nel pubblicare una ricerca che colpisce così tanto gli interessi di chi permette la sopravvivenza del proprio progetto editoriale…questi condizionamenti sono talmente importanti che, come abbiamo detto, è stato dimostrato che i lavori che riportano effetti positivi di un farmaco hanno molta più probabilità di essere pubblicati rispetto a quelli che riportano effetti negativi o nulli, e questo di per sé produce un importante effetto di distorsione”7.
Esistono rarissimi casi di riviste indipendenti e libere da pressioni economiche; tra queste Psicoterapia e Scienze Umane, una rivista italiana diretta dallo stesso Migone. Anche la ricerca di Kirsch, seppure di estremo interesse, non fu pubblicata da una rivista di psichiatria, ma da una rivista di psicologia, che era interamente finanziata dall’American Psychological Association e che, per questo motivo, dopo un anno dalla pubblicazione dovette chiudere i battenti a causa degli alti costi di mantenimento.
Per contrastare questa tendenza diffusa all’occultamento dei dati, i direttori di alcune delle più prestigiose riviste mediche, riuniti nell’International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE) hanno ribadito il bisogno di trasparenza nella ricerca clinica, chiedendo a ricercatori e case farmaceutiche di registrare in un database internazionale tutte le sperimentazioni cliniche al momento della loro attivazione – e non dopo, a seconda dei risultati ottenuti – pena la non pubblicazione dei risultati di queste ricerche. Negli Stati Uniti si sta pensando addirittura ad una legge che renda obbligatoria questa registrazione in un database del National Institute of Health (NIH)8.
Perché questa complicità?
Che le case farmaceutiche abbiano interesse a nascondere gli studi con risultati negativi è abbastanza evidente; ma perché l’FDA che è un’ente governativo e dovrebbe portare avanti l’interesse della collettività dovrebbe assecondare questa tendenza all’occultamento? È importante sapere che mentre una volta l’FDA era finanziata con i soldi pubblici del governo americano, sotto la presidenza di H.W. Bush e successivamente quella di Clinton e Bush junior fu approvata una legge che permetteva all’FDA di addebitare alle case farmaceutiche i costi per analizzare i loro nuovi prodotti, in modo che potessero essere approvati più velocemente.
Tale legge, tra le altre cose, imponeva che solo una piccola percentuale di quei finanziamenti potesse essere usata per studi sulla sicurezza dei farmaci. Tradotto, tanti soldi destinati a velocizzare la commercializzazione dei farmaci e pochi per studiarne i rischi e la eventuale pericolosità. Del resto, come disse uno dei dirigenti dell’FDA, “i nostri clienti sono le industrie farmaceutiche”, dimenticando come i veri committenti fossero in realtà il popolo degli Stati Uniti. Il caso americano, a onor del vero, non è nemmeno un caso isolato; Kirsch ci ricorda che sebbene il 40% del budget della FDA provenga dai finanziamenti delle case farmaceutiche, queste ultime finanziano il 70% delle entrate dell’EMA e il 100% dell’MHRA9. Un po’ come se i ladri dessero da mangiare al cane da guardia!
Concludendo…
Le considerazioni fatte fin qui aprono uno squarcio inquietante sugli psicofarmaci e sul processo che ne determina l’approvazione e la commercializzazione, sulle commistioni, sui rapporti di potere e sugli interessi in gioco. Soprattutto alla luce della scarsa efficacia delle molecole farmacologiche prese in esame (qui ho analizzato gli antidepressivi ma questioni simili potrebbero essere tirate in ballo anche per altri psicofarmaci). Nonostante ciò, i farmaci continuano ad essere utilizzati come presidio terapeutico d’elezione in molte patologie psichiche, spesso senza essere affiancati da altri interventi terapeutici. Vuoi per la facilità di somministrazione, vuoi per il fatto che consentono allo psichiatra di “liquidare” molto più velocemente il paziente, senza dover dedicare ulteriore tempo e impegno per ascoltare in maniera attenta ed empatica la persona e le sue problematiche. Se poi pensiamo alle pressioni esercitate dagli “informatori scientifici”, al fatto che tutti i convegni sono sponsorizzati dalle case farmaceutiche, e alle riviste del settore la cui esistenza dipende quasi interamente dalla pubblicità e dai finanziamenti delle case farmaceutiche, appare chiaro perché, come dice Migone, “è fuori dubbio che gran parte di quello che fa uno psichiatra oggi è prescrivere farmaci”10.
Anche se dobbiamo riconoscere che anni fa i farmaci hanno avuto il merito di svuotare i manicomi, oggi sembrano essere diventati una nuova camicia di forza.
Ho lavorato per più di vent’anni nelle strutture psichiatriche e so di cosa parlo. I pazienti assumono quotidianamente decine di pastiglie di psicofarmaci diversi, spesso senza alcuno spazio di contrattazione nel rapporto coi loro psichiatri, e questo per anni e anni. Oltre al fatto di avere solo un effetto sintomatico, l’assunzione prolungata di psicofarmaci causa quella che lo psichiatra P. Breggin definisce Chronic Brain Impairment (CBI)11, una sindrome che assomiglia molto alla demenza precoce. Ne fanno parte disfunzioni cognitive (problemi di memoria, confusione mentale, difficoltà d’apprendimento e deficit d’attenzione), apatia e perdita d’energia e vitalità, disregolazione affettiva e degli impulsi, irritabilità e cambi repentini d’umore, perdita di consapevolezza di sé e delle proprie problematiche (scarsa consapevolezza di malattia).
Questi sintomi, che Breggin e altri autori attribuiscono all’assunzione continuativa di psicofarmaci, nella pratica quotidiana di una certa psichiatria vengono invece visti come sintomi da curare in quanto manifestazioni della patologia psichiatrica stessa, giustificando così il mantenimento, se non in alcuni casi, l’incremento del trattamento farmacologico.
Tutto questo accade mentre la ricerca scientifica ha dimostrato in modo inequivocabile che per molti disturbi, come ad esempio per la depressione maggiore, l’efficacia della psicoterapia è nettamente superiore a quella dei farmaci12. Qualcuno potrebbe obiettare che la psicoterapia richiede un maggior dispendio di tempo e di denaro e che proprio per questo motivo il farmaco è uno strumento più semplice ed economico da utilizzare. Niente da fare. Ancora una volta i dati smentiscono questa tesi. Varie ricerche, ad esempio, hanno dimostrato il grande risparmio economico della psicoterapia rispetto alla terapia farmacologica, risparmio che si esprime in termini di diminuzione della spesa sanitaria (ricoveri, medicine, esami specialistici, ecc.) e che è stato osservato soprattutto in relazione ai disturbi di personalità13.
Gabbard riporta ad esempio alcuni dati che evidenziano una media di 8,46 giorni di ricovero all’anno per i pazienti tratti con psicoterapia rispetto ai 38,86 giorni di ricovero all’anno per i pazienti del gruppo di controllo; con un risparmio di circa 10.000 dollari annui per paziente14.
Un altro studio condotto su 30 pazienti borderline ha evidenziato risultati simili dimostrando che il trattamento con la psicoterapia ha dimezzato le spese di ospedalizzazione15.
Quelli che ho esposto fin qui sono i dati che arrivano dalle ricerche scientifiche, condotte secondo i crismi metodologici riconosciuti dalla comunità scientifica. Il fatto che questi dati siano stati contestati, sminuiti o addirittura occultati è un fatto interessante che la dice lunga sulle pressioni esercitate da una certa parte della scienza per far apparire antiscientifico tutto ciò che va contro agli interessi dominanti. Una riflessione particolarmente interessante alla luce di quello che sta accadendo da un paio d’anni a questa parte….non lo credete anche voi?
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- Kirsch I. & Sapirstein G. (1998). Listening to Prozac but hearing placebo: A metaanalysis of antidepressant medication. Prevention & Treatment, 1: http://journals.apa.org/prevention/volume1/pre0010002a.html.
- Kirsch I., Moore T.J., Scoboria A. & Nicholls S.S. (2002a).. The emperor’s new drugs: an analysis of antidepressant medication data submitted to the US Food and Drug Administration, Prevention & Treatment, 5: http://www.journals.apa.org/prevention/volume5/pre0050023a.html
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W. Kondro and B. Sibbald (2004) Drug company experts advised staff to withhold data about SSRI use in children, in CMAJ, vol. 170, n. 5 - Le accuse riguardavano sia l’occultamento dei dati che evidenziavano l’inefficacia della paroxetina sia la mancata informazione sui possibili gravi effetti collaterali del farmaco, capace di indurre idee suicidarie e di instaurare una grave forma di dipendenza.
- Garattini S. (2005). Il medico e la prescrizione. La Professione, VII, 2: 10.
- Migone P. (2009) Quanto sono efficaci i farmaci antidepressivi? Il Ruolo Terapeutico, 2009, 112: 45-56
- De Angelis C..D. et al (2004) Clinical trial registration: a statement from the International Committee of Medical Journal Editors, New England Journal of Medicine, 351, 12: 1250-1251. Internet edition: http://content.nejm.org/cgi/content/full/351/12/1250.
- Kirsch I. (2012) I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito, Tecniche Nuove, Milan
- Migone P. (2005) Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale, Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 3: 312-322
- Breggin Peter R. (2011) Psychiatric drug-induced Chronic Brain Impairment (CBI): implications for long-term treatment with psychiatric medication, International Journal of Risk & Safety in Medicine 23 (2011) 193–200 (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22156084/)
Breggin Peter R. (2018) La sospensione degli psicofarmaci, Giovanni Fioriti editore. - Wexler B. & Nelson J. (1993) The treatment of major depressive disorders. International Journal of Mental Health, 22, 2: 7-41 (trad. it.: Il trattamento dei disturbi depressivi maggiori. Rivista Sperimentale di Freniatria, 1994, CXVIII, 1: 7-50).
- Migone P. (2003). Evidenze empiriche nella psicoterapia dei disturbi di personalità. Ricerca in psicoterapia, 6, 1/2: 81-97.
- Gabbard G.O. (1997). Borderline personality disorder and rational managed care policy. Psychoanalytic Inquiry, 1997, 17 (suppl.): 17-27
Gabbard G.O. (2000). Psychotherapy of Personality Disorders. Journal of Psychotherapy Practice and Research, 9: 1-6. - Stevenson J. & Meares R. (1992). An outcome study of psychotherapy for patients with borderline personality disorder. American Journal of Psychiatry, 149, pp. 358-362.
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