
Anni fa, un mio amico che voleva vendere uno scooter usato pensò bene di riverniciarlo per renderlo più appetibile ad eventuali acquirenti. Una mossa intelligente che gli consentì di dare nuova vita allo scooter che altrimenti sarebbe risultato poco interessante. E questo indipendentemente dal buon funzionamento della parte meccanica. Capimmo così che si poteva vendere meglio uno scooter riverniciato che aveva il motore malmesso rispetto ad uno che pur avendo il motore in perfette condizioni si presentava con una carrozzeria un po’ malandata. La dura legge del mercato, ben conosciuta dagli esperti di pubblicità e di marketing i quali sanno che ciò che davvero conta non è la qualità di un prodotto ma l’impatto che riesce ad avere sul consumatore. O, per meglio dire, l’impatto pubblicitario di un prodotto ne determina anche la qualità.
Tutto questo vale anche per quel che accade nel campo della psicologia, dove si inventano continuamente nuove parole, spesso più accattivanti e dalla fonetica anglofona, per definire cose conosciute da sempre facendole passare per nuove scoperte, nuove tendenze che, a detta di chi le propone, sarebbero in grado di offrire soluzioni ancor più efficaci alle nostre problematiche. La moda del momento, ad esempio, si chiama mindfulness, termine usato per riferirsi ad un atteggiamento che, nella sostanza, corrisponde ad un concetto fondamentale della psicologia, dai notevoli risvolti in ambito clinico e terapeutico; quello di consapevolezza. A ben vedere, qualsiasi intervento in ambito psicoterapeutico è basato sulla consapevolezza, intesa come uno stato di coscienza di sé e delle cose che accadono dentro e fuori di noi. Essa presuppone una presenza mentale a se stessi e per questo è alla base di molte delle tecniche a mediazione psico-corporea. Pensiamo alle tecniche di rilassamento e, soprattutto, alla meditazione, in tutte le sue forme. Pratiche che esistono da centinaia d’anni, praticate a tutte le latitudini e basate sulla consapevolezza di sé. Perché mai allora, mi chiedo, si è sentito il bisogno di inventarsi il termine mindfulness per parlare di consapevolezza di sé? E soprattutto, che senso ha dire di fare mindfulness quando nella sostanza la si è sempre fatta senza mai definirla così?
L’idea che mi sono fatto è che questa operazione di restyling abbia due motivazioni principali. Da una parte il bisogno di traghettare competenze psicologiche ai non psicologi, secondo una logica di spartizione della “torta” del mercato. Dall’altra, il non “saper più che pesci prendere” e cosa inventarsi per attrarre l’interesse delle persone con titoli e paroloni altisonanti.
In ogni caso ritengo siamo in presenza di un inganno, e proverò a spiegare il perché. Prima però, una precisazione è doverosa. Ritengo che la psicologia non debba chiudersi e arroccarsi su se stessa a mo’ di casta iniziando una caccia alle streghe, o meglio, agli eretici. Il fatto che gli psicologi siano autorizzati ad “maneggiare” le competenze psicologiche non significa che non ci siano non psicologi altrettanto competenti o, talvolta aihmè, più competenti anche in virtù dei loro percorsi di crescita personale. Ritengo che la capacità di aiutare non sia presidio unicamente degli psicologi. In più, il bisogno di tener stretto qualcosa a sé è sintomo della paura di perdere il proprio potere, che a sua volta denota insicurezza in se stessi e in quello che stiamo facendo. Solitamente, chi ha paura di perdere qualcosa ha paura di perdere qualcosa che non ha. Senza contare l’ambiguità del fatto che se da una parte gli psicologi danno “la caccia” ai non psicologi che usano competenze e strumenti psicologici, dall’altra sono loro stessi a formare i non psicologi all’esercizio di professioni parallele quali appunto counselor, coach e via dicendo.
Ma torniamo al cuore della questione. Oltre alle già citate questioni di interesse legate alla esigenza di legittimazione di professioni parapsicologiche (para nel senso di “somiglianti a”), l'”inganno” in merito all’uso del termine mindfulness sta principalmente nel fatto che si fa qualcosa che si è sempre fatto facendo credere alle persone che sia qualcosa di nuovo, di diverso, e soprattutto di più efficace. Il parallelismo con l’approccio pubblicitario è evidente: far pensare che la qualità e l’efficacia di qualcosa dipenda dal nome che gli si attribuisce e dalla novità che rappresenta. Sapendo, in cuor nostro, che la sostanza di quello che andiamo a proporre è esattamente la stessa.
Proprio come il mio amico che riverniciava lo scooter facendolo sembrare migliore. Quello che vi consiglio, quindi, ogni volta che sentite qualche nuovo termine alla moda, soprattutto se in inglese, è di drizzare le orecchie, pensando che sia stato confezionato appositamente per voi; sì, proprio per voi, per nascondervi la vera sostanza delle cose.
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