
Premessa
Secondo la Great Barrington Declaration, una dichiarazione firmata ad oggi da 44.762 scienziati, epidemiologi e medici delle più prestigiose Università di tutto il mondo, le attuali politiche restrittive messe in atto dai governi per fronteggiare il Covid-19 stanno producendo risultati devastanti sulla salute pubblica, fisica e mentale, sia sul breve che sul lungo periodo. In sintesi, secondo questi scienziati, le scelte messe in atto ad esempio dal governo italiano di chiudere certe attività commerciali dopo certi orari, di fare didattica a distanza o l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto, così come il divieto di assembramento, sono misure non solo sproporzionate ma completamente folli. Le stesse misure che secondo molti altri medici e scienziati sono invece necessarie per risolvere il problema dell’epidemia e che dovrebbero addirittura essere inasprite.
Alla luce di una divergenza d’opinioni così forte tra gli studiosi della materia, mi sarei aspettato che i governi avessero ascoltato le ragioni di entrambe le parti per arrivare a definire regole e misure di buon senso che potessero tutelare al meglio la nostra salute. Ma così non è stato. Anzi, si dà ascolto e legittimazione solo alla visione più pessimistica, seguendo il flusso della corrente del “pensiero unico”, senza nemmeno guardarsi attorno e senza prendere minimamente in considerazione ipotesi diverse. Tutto ciò in nome della tutela della nostra salute, come se i medici che la pensano diversamente avessero l’obiettivo di farci ammalare! Ma qui entriamo in questioni che richiederebbero una trattazione specifica, e che riguardano diritti fondamentali come la libertà e la salute.
Fermo restando che ognuno è libero di pensarla come vuole sulla questione Covid-19, mi preme qui far riflettere il lettore sul fatto che, per come stanno le cose, oggi non ci è consentito scegliere liberamente a chi e in cosa credere.
Nella maggior parte dei casi le nostre scelte e le nostre reazioni sono orientate e condizionate dall’esterno, anche se non ce ne rendiamo conto.
Chi pensa che la mancanza di libertà sia una prerogativa dei sistemi totalitari commette un grave errore di valutazione, non rendendosi conto che la differenza tra quelli e la nostra condizione attuale è solo nella forma esteriore e nei meccanismi utilizzati per limitare le libertà ed esercitare il controllo, più o meno espliciti e più o meno raffinati dal punto di vista psicologico.
Ma perché mai, mi chiedo, la maggioranza delle persone mostra di accettare di buon grado, ritenendole addirittura desiderabili, certe forme di controllo e di privazione della libertà? E ancora, che conseguenze hanno questi meccanismi sulla salute delle persone?
Le basi teoriche
La risposta a queste domande può essere cercata in una serie di studi di laboratorio condotti a partire dal primo decennio del secolo scorso, allo scopo di individuare i meccanismi attraverso i quali condizionare il comportamento delle persone. Questi studi avevano come soggetti sperimentali dei cani o, più frequentemente, dei topolini da laboratorio, utilizzati sia per la loro capacità di apprendere molto velocemente dall’esperienza che per la loro velocità di riproduzione.
Il pioniere di questi studi fu Ivan Pavlov, uno scienziato russo che riuscì a condizionare un cane ad emettere una certa risposta (premere una leva) di fronte ad un certo stimolo, associando tale risposta a del cibo. Variando lo stimolo fino a renderlo non più chiaramente distinguibile da altri stimoli simili, indusse nel cane quello che lui stesso definì una “nevrosi sperimentale” ; il cane non sapeva più quale leva doveva premere per ottenere il cibo ed entrava in uno stato di confusione e di agitazione, rispondendo a casaccio o cessando qualsiasi tipo di risposta. Ciò significa che somministrando certi stimoli e agendo sulle caratteristiche degli stessi, è possibile condizionare il comportamento delle persone nella direzione desiderata, condizionandone anche lo stato psicofisico.
Gli studi di Pavlov furono ripresi e approfonditi da B.F. Skinner, psicologo americano considerato il padre del “condizionamento operante” il quale, verso la fine degli anni ’40, confermò la possibilità di condizionare le risposte comportamentali degli animali e studiò a fondo le tecniche con le quali un certo comportamento poteva essere rinforzato, estinto o diminuito nella sua frequenza. Tutto ciò sfruttando semplicemente i meccanismi psico-fisiologici alla base dell’apprendimento.
Decenni più tardi, negli anni ’70, il biologo francese Henri Laborit fece degli esperimenti sui topi, sottoponendoli a tre diverse situazioni sperimentali in cui ricevevano ripetutamente delle scosse elettriche, con la differenza che nella prima situazione il topolino aveva la possibilità di evitare la scossa elettrica; nella seconda, il topolino non poteva fuggire ed era costretto a condividere la gabbia con un altro topolino. Nella terza situazione, il topolino non poteva evitare la scossa ed era solo all’interno della gabbia.
I risultati della prima situazione sperimentale mostrarono che dopo aver ricevuto i primi shock elettrici il topolino imparava ad evitare la scossa fuggendo nella zona non elettrificata della gabbia. Quando invece non potevano evitare la scossa e si trovavano assieme nella gabbia i topolini iniziavano a combattere tra loro, come se ognuno ritenesse l’altro responsabile della scossa ricevuta. In entrambe queste situazioni, tuttavia i topi non presentavano segni di stress e non si ammalavano. Nella terza situazione, quando cioè era costretto a subire le scariche elettriche non potendo né fuggire né attaccare un suo simile, l’animale cominciò a mostrare segni evidenti di disagio e di malattia. Lo stress lo stava letteralmente uccidendo.
Perché il topo si ammalava solo in quest’ultimo caso, pur ricevendo sempre la scossa elettrica? Perché in risposta alla scossa elettrica non poteva né fuggire né attaccare ed essendo inibita ogni possibilità di risposta allo stimolo negativo, reagiva in modo autodistruttivo.
A distanza di qualche anno, risultati simili furono ottenuti anche da Martin Seligman, uno psicologo americano considerato il fondatore della “psicologia positiva”. Con l’intento di studiare l’effetto di eventi di vita stressanti e incontrollabili in una situazione sperimentale di laboratorio, applicò ripetutamente delle leggere scosse elettriche a dei cani e a dei ratti e osservò che quando gli animali si rendevano conto di non poter fare nulla per evitarle, finivano col rassegnarsi e accettare passivamente la situazione, anche quando in realtà avrebbero potuto evitare gli stimoli dolorosi.
Gli stessi studi furono effettuati anche sugli esseri umani, sostituendo le scosse elettriche con un suono forte e fastidioso e l’effetto risultò esattamente lo stesso. Le persone, così come gli animali, di fronte al fatto che qualsiasi cosa facciano per mettere fine alla loro sofferenza si rivela inutile, si arrendono.
Seligman definì questo atteggiamento mentale “sindrome da impotenza appresa”, che determina un crollo dell’autostima e apre la strada alla depressione, sia in senso psicologico che biologico, innescando un circolo vizioso che, lentamente ma inesorabilmente, conduce ad una condizione di resa totale nei confronti della vita.
Una volta caduta nella morsa della “sindrome da impotenza appresa”, la persona si convince che qualsiasi cosa faccia la situazione non cambierà mai; tutto diventa inutile e privo di senso e il fatto di non poter avere alcun controllo su di sé e sulla propria vita la spinge ad affidarsi totalmente al controllo di altri, rinunciando così alla propria libertà e al proprio potere d’autodeterminazione.
Conseguenze e soluzioni
Le implicazioni di queste scoperte sulla nostra vita sono importanti.
Ad esempio, se immaginiamo di sostituire il suono o la scossa elettrica dell’esperimento di Seligman con il continuo susseguirsi dei DPCM ci ritroviamo improvvisamente catapultati al posto dei suoi topolini e ci accorgiamo di provare le loro stesse sensazioni d’impotenza e rassegnazione, mancanza d’iniziativa, apatia, depressione. Finendo poi per abituarci allo star male senza fare alcunché per cambiare le cose, anche quando avremmo la possibilità di farlo.
Il fatto di essere stati chiusi a lungo in casa nel periodo del lockdown, senza poter “fuggire”, ha avuto come effetto quello di far aumentare il livello di conflitto e gli episodi di violenza all’interno delle famiglie, proprio come accadeva ai topolini chiusi assieme nella gabbia di Laborit. Non solo. Anche le recenti e sempre più frequenti manifestazioni di protesta nelle varie piazze d’Italia possono essere lette come una manifestazione d’”attacco”, uno scontro tra simili, scatenato dalla rabbia a seguito delle continue e sempre più rigide restrizioni imposte dai vari DPCM. Sulla stessa linea si colloca anche il clima di sospetto e la percezione, ormai sempre più diffusa, che il pericolo provenga non da chi impone restrizioni alla nostra libertà ma dal nostro vicino di casa, dal collega di scrivania o dalla persona seduta due posti più in là sul tram. Per non parlare dell’aumento esponenziale dei problemi di salute causati dalla paura e dallo stress della solitudine in coloro che non hanno potuto né “fuggire” né “attaccare”.
E che dire della confusione e dell’atteggiamento “nevrotico” del cane di Pavlov di fronte a due stimoli simili che elicitavano risposte diverse e opposte, l’una piacevole e gratificante (il cibo) e l’altra dolorosa (la scossa); non vi sembra simile alla confusione e al disorientamento che abbiamo sperimentato di fronte all’ambivalenza delle molte disposizioni governative, dove si diceva tutto ma anche il contrario di tutto e che ad una mente un po’ paranoica potrebbero sembrare studiate intenzionalmente allo scopo di creare confusione e disorientamento nelle persone? Del resto, anche la “teoria dell’attaccamento” (un filone di studi che ha analizzato gli effetti del comportamento materno sull’equilibrio psicologico dei bambini piccoli) ci insegna che un atteggiamento poco chiaro, ambivalente e contraddittorio determina in chi lo subisce forti scompensi emotivi e turbe comportamentali che rendono la persona psichicamente instabile.
Dopo questo breve excursus in alcune delle acquisizioni psicologiche del secolo scorso, devo dire che confrontando gli esperimenti sopra citati con la situazione attuale trovo curiose assonanze e similitudini con ciò che stiamo vivendo, come se anche noi fossimo parte di un grande esperimento psico-sociologico, finalizzato a “educare” e ammaestrare la razza umana, “promossa” definitivamente, dopo millenni di storia, al ruolo protagonista di “cavia”.
Detto questo, credo che l’unica possibilità che abbiamo per smettere di essere trattati come cavie da laboratorio, è riappropriarci della nostra natura umana e spirituale, ricordandoci chi siamo.
Dobbiamo riconoscere che abbiamo molte più risorse di quelle che avremmo a disposizione se fossimo dei topolini di laboratorio. Il topolino reagisce secondo un semplice schema di stimolo-risposta, cercando di evitare il dolore e inseguendo la gratificazione. Noi, invece, abbiamo anche ragione, pensiero, sentimento, e soprattutto, coscienza di noi stessi.
Siamo il risultato di centinaia di migliaia di anni d’evoluzione ed è grazie a questa evoluzione che abbiamo perfezionato il nostro essere e il nostro sistema immunitario, mettendolo in grado di affrontare e contrastare qualsiasi minaccia e agente patogeno che incontriamo.
Quando decideremo, allora, di uscire dalla gabbia in cui ci stiamo facendo rinchiudere?
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