
Il business della “scienza”
Secondo i report delle case farmaceutiche più dell’80% dei pazienti depressi possono essere trattati con successo con gli antidepressivi. Affermazioni di questo tipo hanno reso reso questi farmaci tra i più prescritti a livello mondiale, con un business di circa 19 miliardi di dollari all’anno.
L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha recentemente analizzato l’uso di antidepressivi in 25 paesi e ha scoperto che nel periodo 2000-2017 in ogni singolo paese preso in esame l’uso di questi farmaci è andato via via aumentando1. In Germania, l’uso di antidepressivi è aumentato del 46% in soli quattro anni. In Spagna e in Portogallo, è aumentato di circa il 20% durante lo stesso periodo. In Islanda circa una persona su dieci assume antidepressivi regolarmente. Negli Stati Uniti circa l’11% della popolazione sopra i 12 anni assume un antidepressivo. In Italia il consumo di antidepressivi è raddoppiato dal 2000 al 2017, ed è ulteriormente cresciuto negli ultimi anni; nel 2020 è aumentato dell’1,7% rispetto al 2019, fino a rappresentare il 3.7% del consumo totale dei farmaci. L’impennata del consumo di questi farmaci coincide con la diffusione in tutto il mondo degli antidepressivi SSRI 2, grazie anche a grosse campagne pubblicitarie apparse su noti settimanali che li propagandavano come “pillole della felicità”; ricordiamo il caso del Prozac, il primo SSRI ad essere prodotto e uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina.
Visto questi numeri, ci potremmo aspettare che esista una solida base scientifica che giustifica l’adozione così ampia di questi farmaci.
“La depressione non è causata da un disequilibrio chimico nel cervello e non si cura con farmaci. La depressione può persino non essere una malattia.”
Irving Kirsch
L’ “invenzione” degli psicofarmaci
Anni ’50. A seguito della somministrazione di un farmaco per il trattamento della tubercolosi – un principio attivo prodotto a partire dai residui di combustibile dei razzi tedeschi – si osservò un effetto collaterale abbastanza curioso: le persone erano più gioiose e avvertivano una sensazione di particolare vitalità e benessere. Nasce così il primo antidepressivo, l’iproniazide, che, da quel momento, comincia ad essere utilizzato per curare i pazienti depressi.
Un anno dopo lo psichiatra svizzero R. Kuhn pubblica un articolo sull’American Journal of Psychiatry in cui si parlava di un farmaco studiato per la cura delle psicosi che si era visto avere un effetto antidepressivo su un’alta percentuale dei suoi pazienti. Questo farmaco, l’imipramina, diventa così il secondo farmaco antidepressivo della storia. Curiosamente, l’efficacia di questi farmaci non era basata su studi clinici controllati con placebo – come sarebbe necessario per l’approvazione di ogni principio farmacologico – ma sulle impressioni cliniche degli psichiatri che lo avevano somministrato. Per ovviare a questa “fragilità” scientifica e giustificare l’utilizzo dei neonati antidepressivi, fu quindi formulata, all’incirca un decennio dopo, negli anni ’60 (la prima formulazione risale al 1965), la teoria dello squilibrio chimico della depressione, nota anche come ipotesi monoaminergica3-4. Semplificando, la logica alla base di questa teoria era la seguente: “abbiamo somministrato questo farmaco a dei pazienti e abbiamo visto che sono meno depressi. Poiché questo farmaco aumenta i livelli di serotonina e noradrenalina nel cervello, possiamo dire che la depressione è causata da una carenza di questi neurotrasmettitori. Quindi, con questo farmaco possiamo curare la depressione”.
La cosa curiosa è che 10 anni prima della formulazione di tale teoria, fu pubblicato su The Lancet – una delle più autorevoli riviste medico-scientifiche del mondo – uno studio che ne smentiva i presupposti di base5. Lo studio fu condotto con gruppo di controllo “in cieco” (solo il medico sapeva cosa stava somministrando – farmaco o placebo – ai soggetti sperimentali e al gruppo di controllo) somministrando a dei soggetti normali della reserpina, un farmaco che diminuiva i livelli di monoamine (serotonina, noradrenalina e dopamina) nel cervello; tuttavia, contrariamente a quanto previsto dall’ipotesi monoaminergica, i soggetti non manifestarono alcuna forma di depressione. I risultati di questo studio passarono però del tutto inosservati e così, per una decina d’anni si continuò a trattare i pazienti depressi con farmaci i cui presupposti d’efficacia erano stati, nel frattempo, smentiti.
Inoltre, a partire dagli anni ’60 si cominciarono ad utilizzare i gruppi di controllo e il “doppio cieco”6 nella sperimentazione sui farmaci e, dal quel momento in poi, si sono accumulati una mole di studi che hanno ulteriormente evidenziato l’inconsistenza della teoria dello squilibrio biochimico.
Ne citerò solo un paio. Uno riguarda la più completa meta-analisi7 mai fatta sugli studi sugli antidepressivi, i cui autori dicono che, “sebbene in passato i sistemi monoaminergici siano stati considerati responsabili dello sviluppo del Disturbo Depressivo Maggiore, le prove odierne a disposizione non sostengono una relazione casuale diretta col DDM. Non c’è una semplice e diretta correlazione dei livelli di serotonina o noradrenalina nel cervello con l’umore”8.
L’altro è relativo ad uno studio che ha confrontato l’azione degli antidepressivi SSRI e quella degli antidepressivi triciclici con quella della tianepina, un antidepressivo sintetizzato in Francia che agisce riducendo la quantità di serotonina nel cervello (potenziandone il processo di ricaptazione da parte dei neuroni presinaptici). Ebbene, il 63% dei pazienti depressi trattati con la tianepina rispose positivamente; ma il 62% dei pazienti rispose anche agli SSRI e il 65% ai triciclici9. Di fronte a questi dati, come si poteva continuare a sostenere che la depressione dipendeva dalla carenza di serotonina se i pazienti depressi miglioravano anche con un farmaco che ne riduceva ulteriormente la concentrazione?
Nonostante ciò, dopo mezzo secolo di studi che hanno confutato l’ipotesi dello squilibrio chimico, gli antidepressivi ancora oggi continuano ad essere utilizzati nel trattamento della depressione.
Il crollo del mito degli antidepressivi
Irving Kirsch è uno psicologo americano attualmente professore alla Harvard Medical School e al Beth Israel Deaconess Medical Center, oltre che all’Università di Plymouth. Si è occupato per molti anni dell’effetto placebo e a un certo punto della sua carriera ha voluto indagare l’efficacia degli antidepressivi SSRI, dubbioso al riguardo ma anche incuriosito dal clima miracolistico che li circondava.
In un primo studio del 1998 e in uno successivo del 2002 ha pubblicato, assieme ai suoi collaboratori, una meta-analisi degli studi sugli antidepressivi i cui risultati hanno avuto l’effetto di un uragano negli ambienti specialistici10. In sostanza, in entrambi gli studi è emerso che sebbene alcuni pazienti depressi migliorano grazie agli antidepressivi, si osservano miglioramenti anche in molti pazienti che hanno assunto un placebo, al punto che la differenza tra risposta al farmaco e risposta al placebo non è clinicamente significativa. In sostanza, la maggior parte dei miglioramenti mostrati da persone depresse in cura con antidepressivi è dovuta all’effetto placebo. I farmaci antidepressivi, quindi, non sono più efficaci dei placebo, anche se, a differenza dei placebo, hanno molti effetti collaterali importanti.
Ma non è tutto. Nella loro prima analisi gli autori avevano preso in esame 38 studi che coinvolgevano più di 3000 pazienti depressi, divisi in gruppi a seconda del trattamento che avevano ricevuto: farmaci, placebo, psicoterapia e nessun trattamento. Ebbene, sia i pazienti che avevano ricevuto il farmaco che quelli trattati con la psicoterapia erano molto migliorati11 e la differenza tra i due gruppi era insignificante. Tuttavia, anche chi aveva ricevuto un placebo migliorava la propria sintomatologia depressiva, anche se non in modo così sostanziale come gli altri due gruppi. I pazienti che invece non avevano ricevuto alcun trattamento mostravano un miglioramento relativamente piccolo. Questi risultati indicavano che i miglioramenti di chi aveva ricevuto il placebo erano dovuti proprio all’effetto placebo, visto che in chi non aveva avuto alcun trattamento il miglioramento era minimo. I placebo, infatti, possono invertire l’effetto di potenti medicine, possono influenzare sia il corpo che la mente; possono far ammalare le persone ma anche farle sentire meglio. Tutto questo grazie al potere della suggestione.
Inoltre, emergeva anche che la psicoterapia è più efficace dei farmaci nella cura della depressione. Del resto, sappiamo che la psicoterapia è una forma d’apprendimento e l’apprendimento modifica la fisiologia cerebrale.
Prove e controprove
Com’era possibile che i farmaci fossero così poco efficaci rispetto ai placebo? C’era qualche aspetto che era stato sottovalutato? Vari autori si misero al lavoro nel tentativo di confermare o smentire i risultati di Kirsch, compreso lo stesso Kirsch.
Uno degli aspetti da approfondire riguardava il tipo di antidepressivo utilizzato, secondo l’ipotesi che potevano esserci farmaci più efficaci di altri. In realtà, fu visto che i farmaci non erano più efficaci del placebo sui sintomi della depressione indipendentemente dal tipo di antidepressivo utilizzato (triciclici, antidepressivi SSRI e altri tipologie)15. Non solo. Anche altri farmaci non antidepressivi (antipsicotici, rimedi erboristici, oppioidi, farmaci tiroidei) erano ugualmente efficaci quanto gli antidepressivi16. Come poteva essere spiegato tutto questo? La risposta va cercata negli effetti collaterali. Detto semplicemente, sappiamo che, a differenza di un placebo, ogni farmaco attivo ha degli specifici effetti collaterali e il fatto che i soggetti degli studi avvertissero su di loro tali effetti collaterali li convinceva di aver assunto un farmaco attivo, cosa che ovviamente li rassicurava e li faceva sentire meglio (essendo infatti gli studi condotti in “doppio cieco” i soggetti non sapevano cosa stavano assumendo e i medici non sapevano cosa stavano somministrando). Tutto ciò confermava i risultati dello studio iniziale di Kirsch; ovvero che i farmaci antidepressivi – ma in questo caso anche quelli non antidepressivi – non sono efficaci sulla depressione in virtù della loro azione chimica ma grazie al fatto che gli effetti collaterali che procurano danno alle persone la convinzione di aver assunto un farmaco, cosa che le fa essere più fiduciose su un possibile miglioramento, innescando in loro un potente effetto placebo17-18 19. Non ci credete? Nel 1998 la casa farmaceutica Merck annunciò l’arrivo sul mercato di un nuovo farmaco antidepressivo particolarmente promettente e soprattutto, con scarsi effetti collaterali. Questo farmaco, commercializzato col nome di Emend, dopo solo quattro mesi fu però ritirato come trattamento per la depressione e restò sul mercato come antinausea e antivomito per i pazienti in chemioterapia. Ebbene, l’assenza di effetti collaterali, che tanto entusiasmo aveva generato, fu proprio la causa del suo insuccesso; gli studi clinici evidenziarono infatti che i pazienti depressi non trovavano giovamento dal farmaco poiché non sperimentavano effetti collaterali evidenti.
A questo punto è chiaro che il successo degli antidepressivi è legato ad un potente effetto placebo più che alla loro efficacia. Ma perché allora ne viene approvata la commercializzazione, visto che per essere immesso in commercio un farmaco deve dimostrare di essere significativamente più efficace di un placebo? Nel prossimo articolo proverò a rispondere a questo interrogativo spiegando come funziona il processo di approvazione di un farmaco e ripercorrendo l’iter burocratico che ha portato all’approvazione degli antidepressivi.
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- OECD (2019), “Anti-depressant drug consumption, 2000 and 2017 (or nearest year)”, in Pharmaceutical sector, OECD Publishing, Paris https://doi.org/10.1787/9f4c4875-en
- Con questa sigla ci si riferisce ad un tipo di antidepressivi che inibiscono il meccanismo di ricaptazione della serotonina. Si tratta di un meccanismo che impedisce al neurone pre-sinaptico di “riacchiappare” la serotonina dopo averla rilasciata nello spazio inter-sinaptico e dopo che ha portato il suo messaggio al neurone post-sinaptico. Questo meccanismo di ricaptazione, quindi, determina un aumento della concentrazione di serotonina negli spazi inter-sinaptici. E’ proprio dall’analisi degli effetti di questi farmaci che ha preso campo l’ipotesi dello squilibrio chimico della depressione.
- Schildkraut J.S .(1965) “The catecholamine hypothesis of affective disorders: a review of supporting evidence” American Journal of Psychiatry.; Coppen A., (1967) “The biochemistry of affective disorders”, British Journal Psychiatry
- Le monoamine sono i cosiddetti neutrosmettitori monoaminergici, serotonina, noradrenalina e dopamina, che secondo la teoria dello squilibrio chimico sarebbero coinvolti nella genesi della depressione.
- Davies D.L e Shepherd M. (1955) “Reserpine in the Treatment of Anxious and Depressed Patients”, The Lancet.
- Un disegno sperimentale in cui i soggetti sono divisi casualmente in un gruppo sperimentale che riceve un trattamento e un gruppo di controllo che riceve un placebo; e in cui nessuno, né i ricercatori né i pazienti sanno se quello che stanno somministrando o assumendo è un farmaco attivo o un placebo.
- La meta-analisi è un’analisi clinico-statistica che prende in considerazione i risultati di un ampio numero di studi fatti su uno stesso argomento.
- Rubé, H.G., Mason N. S., e Schene Aart H.. (2007) “Mood Is Indirectly Related to Serotonin, Norepinephrine and Dopamine Levels in Humans: A Meta-Analysis of Monoamine Depletion Studies”, Molecolar Psychiatry.
- Wagstaff, A. J., Ormrod D. e Spencer C. M. (2001) “Tianepine: A Review of Its Use in Depressive Disorders” CNS Drugs
- Kirsch I. & Sapirstein G. (1998). Listening to Prozac but hearing placebo: A metaanalysis of antidepressant medication. Prevention & Treatment, 1: http://journals.apa.org/prevention/volume1/pre0010002a.htm
Kirsch I., Moore T.J., Scoboria A. & Nicholls S.S. (2002a). “The emperor’s new drugs: an analysis of antidepressant medication data submitted to the US Food and Drug Administration”, Prevention & Treatment, 5: http://www.journals.apa.org/prevention/volume5/pre0050023a.html
Kirsch I. (2012) I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito, Tecniche Nuove, Milano - Il miglioramento si riferisce alla riduzione dei sintomi rilevata attraverso la scala Hamilton, solitamente utilizzata per misurare la depressione.
- Wexler B. & Nelson J. (1993). “The treatment of major depressive disorders”, International Journal of Mental Health
- Drop-out è il fenomeno secondo il quale il paziente abbandona la terapia prima che essa si concluda o comunque prima del raggiungimento degli obiettivi prefissati
- Fava G.A. (1994). “Do antidepressant and antianxiety drugs increase chronicity in affective disorders?” Psychotherapy and Psychosomatics.
Fava G.A. (1995). “Suscettibilità alle ricadute e cronicità nei disturbi affettivi. Siamo sicuri che i farmaci antidepressivi ed ansiolitici abbiano solo un effetto protettivo?” Rivista Sperimentale di Freniatria - Williams, Jr. et al. (2000) “A Systematic Review of Newer Pharmacotherapies for Depression in Adults: Evidence Report Summary”, Annals of Internal Medicine.
- Moncrieff , J. (2008b) “The Myth of the Chemical Cure”, Basingstoke: Palgrave Macmillian
- Rabkin, J.G. et al. (1986) “How Blind is Blind? Assesment of Patient and Doctor Medication Guesses in a Placebo – Controlled Trial of Imipramine and Phenelzine”, Psychiatry Research
- Greenberg, R. P. (2002) “Reflections on the Emperor’s New Drugs” Prevention & Treatment http://www.journals.apa.org/prevention/volume5/pre0050027c.html
- Kirsch I., Scoboria A. & Moore T.J. (2002b). “Antidepressants and placebos: secrets, revelations, and unanswered questions.” Prevention & Treatment, 5, art. 33.
Depressione e antidepressivi: alla ricerca della verità – parte 2ª
Non capisco come possano gli psichiatri non tener conto di questi dati, anche metanalisi e continuare a sostenere che gli antidepressivi funzionano eccome.
Il business prima di tutto!!